L'Udienza Presidenziale — di Vittorio Vezzetti

“Esistono giorni, nella vita di un uomo, che sono completamente diversi da tutti quelli che li hanno preceduti; e che sono capaci di dare, a quelli che seguiranno, una prospettiva completamente differente.

Carlo si ricorderà per sempre quel giorno anomalo: l’acqua cadeva a catinelle, quasi tropicale. Un diluvio veramente insolito per la fine di novembre.

Parcheggiò la macchina ben lontano dal Tribunale, vicino al fiume tumultuoso, per non dover pagar la sosta; e poi, ombrello spiegato, si incamminò tra una goccia e l’altra verso il centro città.

“Speriamo che non tracimi”, pensò, percorrendo il ponte sulle acque plumbee, “se no, perdo anche la macchina”.

Di solito la separazione rappresenta la fine, dolorosa, di un qualcosa. Di un pezzo di vita; e così anche Carlo stava vivendo quel giorno. Senza neanche dei patemi eccessivi. Non sapeva e non poteva immaginare che, invece, quello sarebbe stato l’inizio di una vicenda di durata e intensità maggiori del vincolo che si andava a risolvere…  una vicenda che avrebbe segnato il futuro suo e quello di tante altre persone; che sarebbe corsa parallela alla sua vita. Come succede quando si è seduti in un treno e si corre fianco a fianco a un altro treno; che va nella tua stessa direzione; alla medesima velocità.

Era in anticipo clamoroso, come sempre, quindi si fermò sotto i portici di Corso Garibaldi ripetendo la lezione. Dieci minuti. Sì, dieci minuti. Così gli aveva detto Domenico. Aveva dieci minuti per spiegare la sua vita matrimoniale al Presidente del Tribunale. Dieci minuti per raccontare la sua storia.  Dieci minuti e non uno di più per raccontare un pezzo di vita. Allo scoccare del decimo minuto, infatti, il Presidente ti faceva accomodare fuori dall’ufficio.

Per questa ragione si era trovato per due o tre pomeriggi con Domenico che, ironia della sorte, aveva l’udienza presidenziale il giorno dopo di lui: si erano cronometrati a vicenda gli interventi in modo da vedere se sforavano i fatidici dieci minuti e se potevano essere più incisivi evitando di tralasciare momenti cruciali del matrimonio e del divorzio emotivo. A cui, come spesso succede, stava seguendo la separazione legale.

Prima di entrare in Tribunale Carlo, assorto nel ripasso, pestò involontariamente un escremento di cane: volle credere che gli avrebbe portato fortuna. Entrato e superato il metal detector, la sua attenzione fu colpita da un signore, piccolo e tozzo, fermo in un angolo. Dritto in piedi, con lo sguardo fisso e vestito in modo singolare (interamente di rosso) lo salutava con la mano.

Carlo non fece in tempo a soffermarvi la sua attenzione che trovò il proprio legale: l’avvocato Aquilani. Costui era anziano, alto, anzi, altissimo, e segaligno, col naso adunco. Un viso severo. Vestiva in modo impeccabile. Uno dei due o tre migliori matrimonialisti  della città. Una pietra miliare del Foro. Un rodomonte, dicevano.

A consigliarglielo era stato, per il tramite di un’amica comune, un anziano magistrato in pensione.

“Vedrai che arringhe…  un avvocato così grintoso non si trova facilmente…  e poi, che presenza… ”, le era stato detto; e così Mirella aveva riferito.

Salirono davanti all’ufficio del Presidente del Tribunale presso il quale erano stati convocati per le ore nove. Esattamente come altre venti coppie in separazione che annaspavano nella minuscola anticamera coi rispettivi legali…  E l’ufficio, ovviamente, era vuoto. Dopo mezz’ora arrivò il Presidente, il dottor  Piccolò, piccolo di nome e di fatto, che si fece Buy Viagra facilmente strada fra la ressa di coppie che affollavano il corridoio.

Come il magistrato fu a portata di vista dell’avvocato Aquilani, questi, il rodomonte, si prostrò ai piedi del magistrato proferendo la frase: “Buongiorno Presidente, era abbastanza dolce il caffè? Sa, la macchinetta ieri era guasta… ”

Il Presidente non lo degnò di uno sguardo. Tra ombrelli e impermeabili gocciolanti Carlo, l’avvocato Aquilani, la moglie di Carlo e il di lei avvocato, la temibile dottoressa Laganà, attesero il turno con grande trepidazione. Carlo, quantunque alla soglia dei quarant’anni, mai aveva avuto a che fare coi Tribunali.

Cittadino probo, riteneva in ogni caso di non dover avere timore della giustizia italiana. Aveva forse commesso qualche reato?

Pensava di avere molte ragioni e riteneva che, col suo discorso logico e perfezionato sin nei minimi particolari, non ci sarebbe stato nessun problema a convincere una persona ragionevole della bontà della sua esposizione e dell’onestà delle sue richieste. Giunse alfine il suo turno. Qualcuno proferì il suo nome e lui entrò.

Si trovò da solo in un ufficio enorme, un po’ disadorno, e di fronte a lui il giudice Piccolò. Di lato, seduta a una scrivania, la sua segretaria.

Fece appena in tempo a richiamare alla memoria il suo discorso, nove minuti e cinquantotto secondi, che il giudice gli chiese: “Nome?”

“Carlo Carlucci”.

“ Bene”, ribatté il magistrato, gentile ma fermo, “firmi e si accomodi pure fuori”.

“Eh no, signor Presidente”, disse Carlo, ”io son venuto qui per esporre cosa è successo alla mia vita; alla vita di mio figlio, l’unica ragione di esistere, per me;  mi ha detto l’avvocato che questo è l’unico momento della causa in cui posso parlare. Anzi, io ora ho il diritto di parlare. E non le ruberò molto tempo”.

“Ah”, sbottò il magistrato, “lei vuole parlare…  ha sentito segretaria? Questo vuole parlare. Anzi, ha addirittura il diritto di parlare. Siamo dovuti arrivare alla lettera C per trovare qualcuno che vanta diritti… Ma Carlucci, ha visto quanta gente c’è oggi lì fuori? E se tutti volessero parlare? Se lo è domandato che accadrebbe? Tribunale paralizzato. Ma dov’è il suo senso civico?”

Carlo restò muto e fermo, con gli occhi piantati in quelli del Presidente.

“Vabbé…  ascolti…  Carlucci…  se lei ha il diritto di parlare…  questo è il tempio del diritto…  per carità, si sieda e parli! Ma in fretta, senza dilungarsi…  che io il caffè questa mattina ancora non l’ho bevuto”.

Carlo iniziò…  senza prendere fiato snocciolò un racconto che a lui pareva struggente e convincente. A lui. Iniziò come un fiume in piena, perché sapeva che il tempo non sarebbe stato molto.

Iniziò a occhi chiusi, come a cercar la concentrazione assoluta. Dopo un minuto aprì gli occhi e si accorse di parlare a una scrivania vuota e a un muro bianco, dietro.

Il magistrato si era infatti allontanato e, senza prestare ascolto alle sue parole, sicuramente uguali a quelle di migliaia di altri coniugi sciagurati, si era messo a sistemare delle cartellette in un’ampia scaffalatura dall’altra parte della stanza. Tant’è che quando Carlo finì, nulla accadde. Il magistrato continuava imperterrito a posizionare cartellette.

“Ho finito, signor Presidente”, disse Carlo per due volte. La seconda a voce alta.

“Ah,bene, come si chiama?”, ribatté il giudice Piccolò.

“Carlo Carlucci”.

“Ottimo: firmi e si accomodi fuori”, concluse il giudice.

Uscito che fu dalla stanza, l’avvocato Aquilani gli si fece incontro sorridente: “Complimenti, lei deve essere riuscito a incantare il Presidente. Ho cronometrato.

L’ha tenuta dentro quasi quindici minuti. Per la precisione quattordici minuti primi e quarantanove secondi. Risultato veramente straordinario. Non mi ricordo una presidenziale così lunga…  potrebbe -sottolineo il condizionale- trattarsi di una ordinanza fuori dagli schemi. Sarebbe anche ora! Pensi che in qualche grosso Tribunale metropolitano, rapportando il numero di coppie al tempo dedicato dal giudice nella mattinata, hanno calcolato che in media la presidenziale dura un minuto e ventotto secondi. E lei mi ha fatto addirittura un quattordici e quarantanove…  e in condizioni climatiche avverse. Se fosse un rodeo avrebbe già vinto”.

“Mi dica: come pensa che andrà, avvocato?”, domandò Carlo, un po’ frastornato, mentre uno dei tanti legali presenti annuiva sorridendogli.

“Mah, la sua battaglia è difficile, inutile negarlo. Numeri alla mano le mamme in Italia hanno potere quasi assoluto sui figli. Però credo che se il buon giorno si vede dal mattino…  beh…  siamo partiti bene. Prevedo una bella battaglia; come il mitico scontro scacchistico Spassky-Fischer del 1972 a Reykiavik. Fra sette giorni vedremo cosa avrà deciso il Presidente”.

Dopo dieci giorni, però, nessuna ordinanza era stata depositata…  e neanche dopo quindici… e dopo venti…

“Ottimo segno”, commentò l’avvocato Aquilani. “Lei, caro Carlucci, con la sua dialettica deve essere riuscito a mettere in crisi il Presidente. Quattordici e quarantanove, non dimentichiamocelo. Forse non sa neanche più lui cosa decidere. Forse, beninteso”.

Ormai Natale si stava avvicinando.

Carlo da mesi non riusciva a vedere il bambino per il semplice fatto che, se si avvicinava alla casa, o non vi trovava nessuno o comunque nessuno gli apriva  la porta. A lui pareva incomprensibile ma altri gli avevano detto che il taglio dei contatti con la prole è la prima arma di pressione che adottano parecchi genitori, prevalentemente ma non esclusivamente mamme, all’inizio della causa.

L’avvocato Aquilani lo aveva dissuaso dal fare denunce: “Lasci perdere, Carlucci.

Il comportamento di sua moglie, per quanto moralmente discutibile, non ha nessun rilievo penale: è genitrice del bambino e non sta infrangendo nessuna disposizione del magistrato. Finché non arriva l’ordinanza che stabilisce gli orari di visita non c’è niente da fare: vige la legge della giungla e chi ha in mano il bambino vince. Si ricordi Carlucci: possesso è potere. Deve solo aspettare l’emissione dei provvedimenti. Sperando non duri troppo, questa attesa, se no di suo figlio non si ricorderà più nemmeno la faccia”.

Carlo, un po’ inquietato, volle allora interpellare, per il tramite della solita amica Mirella, il vecchio magistrato Perrucci. Ormai in pensione, egli vantava una amplissima esperienza e si limitò a dire a Mirella, incredula: “Dì al tuo amico di rassegnarsi: quando la strada prende questa brutta piega il padre non vede più i figli. Tante volte mi è capitato nella mia professione: anche se c’è il provvedimento che stabilisce le visite, la mamma ci impiega un attimo a trovare una scusa per non ottemperarvi…  il mal di pancia, il dente che fa male, la scappata in farmacia o dal pediatra…  è così…  non c’è niente da fare…  e noi magistrati solitamente preferiamo non intervenire: chi si prende la responsabilità? Riferisci al tuo amico che si rassegni.  Come tanti altri prima di lui. E dopo di lui. Situazione senza speranza”.

Carlo quasi non credeva alle sue orecchie, quando sentì da Mirella il consiglio del giudice. Ma non per questo egli avrebbe cessato di combattere. Anzi, per lui la battaglia era solo all’inizio. E poi…  che ne poteva sapere, in fondo, un vecchio magistrato in pensione, ormai fuori dai giochi? Niente, per cui fece un esposto al Tribunale dei minori e spedì una lettera al Presidente del Tribunale per sollecitare l’emissione dei provvedimenti; all’insaputa del suo avvocato Aquilani.

Non gli era infatti mai capitato di trovarsi in una situazione del genere. Tutte le volte, poche per fortuna, che si era trovato nel bel mezzo di un disservizio o di una disfunzione di un ufficio pubblico, Carlo aveva sempre saputo cosa fare: aveva scritto diligentemente una raccomandata con ricevuta di ritorno al Responsabile del Servizio. Questi aveva trenta giorni di tempo, a termini di legge, per rispondere. Una volta gli rispose, telefonicamente, addirittura il Direttore Generale dell’ASL. Qui, però, la situazione gli sembrava differente. Nessuno era tenuto a rispondere. Il magistrato può, in totale autonomia e indipendenza, secondo la sua sensibilità, imprevedibile, decidere se rispondere o non rispondere. E quasi sempre non risponde. Si era trovato, Carlo, per la prima volta nella sua vita, di fronte a una imperscrutabilità assoluta del sistema. Una sorta di Sibilla Cumana. Una parete di vetro oscurato: dalla quale loro potevano vederti mentre tu non sapevi cosa si facesse al di là; anche se sicuramente si poteva ipotizzare che, al di là del vetro, avessero cose più importanti che occuparsi di tuo figlio. E di tanti, troppi figli come il tuo. Ormai Natale incombeva…  da lì nacque l’idea, per l’ancora ingenuo Carlo, della lettera a Babbo Natale spedita direttamente al Presidente del Tribunale. Avrebbe ottenuto, quest’arma anticonvenzionale, impropria, frutto della disperazione, qualche risultato?”

Capitolo primo del libro-romanzo “Nel nome dei figli” di Vittorio Vezzetti; edizioni BookSprint

Leave a Reply

Your email address will not be published. Required fields are marked *